di Ennio Trinelli
Qualche giorno fa ho letto una notizia che titolava “Due rumeni aiutano a catturare un delinquente e lo consegnano alla polizia” o qualcosa di simile. La notizia non ha certo destato il mio seppur minimo stupore, è perfettamente normale che possa succedere, ma l’articolo si soffermava sulla nazionalità dei due “eroi” quasi a sottolineare che nonostante si trattasse di stranieri erano stati capaci di un gesto simile. Questo sì che ha attirato la mia attenzione. Sono abituato ad avere a che fare con il razzismo, per molti motivi, che è inutile spiegare qui, dato che esulano dalla storia. Tuttavia ricordo un soggiorno in Benin, tanti anni fa. Io, bianco, da solo in vacanza, vedevo che i prezzi lievitavano del 50% ogni volta che entravo in un negozio, schiacciato, mio malgrado, dalla leggenda falsa dell’occidentale ricco o del bianco da spennare. Dovetti farmi un amico locale che mi aiutasse a salvarmi dalle trappole del luogo. Non lo fece gratis, naturalmente, ma salvai il portafogli.
Nessuno è esente dal razzismo, probabilmente nemmeno chi scrive questo articolo anche se, più per scelta che per educazione, o forse per tutte e due, ha deciso di vincerlo andando a “conoscere” prima di giudicare. E qui cadiamo in un altro pregiudizio, quello della conoscenza per evitare il razzismo che mi riporta a una zia, una delle più ignoranti della famiglia, ma anche delle più ricche (è spaventoso vedere come le due cose vadano troppo spesso insieme) che chiede cibo italiano in qualsiasi paese si trovi solo per poter dire che la cucina del posto fa schifo: “non sanno nemmeno cucinare le lasagne!”.
E qui scadiamo nel provincialismo: quando mi trovai in Tunisia con una febbre che sfiorava i quarantuno gradi e venni massaggiato con un unguento di cui non conosco la composizione, che mi fece tremare di freddo per due ore nonostante le sei coperte che avevo addosso – eravamo ad agosto – e sparire la febbre in tre, capii che ci sono tante cose che abbiamo perduto e dovremmo riconquistare. Come la conoscenza delle cose semplici. Che son quelle salvifiche, ma il provinciale non lo sa.Toronto è stata costruita dagli Italiani, così come New York e buona parte dei nostri connazionali emigrati si sono dovuti scontrare con la brutale avversione dei locali. Succede a chi emigra. Ho vissuto all’estero alcuni anni, e soggiornato di qua e di lá per molto tempo. Le reazioni verso lo straniero sono sempre duali: il rifiuto di te in quanto straniero o l’ammirazione per te in quanto straniero. Sono le due facce del razzismo. Ugualmente discutibili.
Nella lingua di questo bel paese che amiamo e a volte detestiamo, c’è una parola che viene usata per definire l’accettazione dello straniero, del differente, dell’altro: questa parola è tolleranza. Una parola orribile, usata a sproposito, e piena di accezioni negative. Insomma io non sono qui per accettarti completamente in quanto “altro” da me – che tu sia straniero o no – ma per imparare a tollerare il fatto che ci sei. E dato che non posso estirpare il bubbone imparo a conviverci.
Quanta strada c’è ancora da fare? Un popolo, quello italiano, che ricorda un po’ la Spagna del Siglo De Oro, quando lo stato vendeva il prezioso metallo a Inghilterra e Francia per fare la bella vita con il risultato che cento anni dopo i due paesi erano potenze mondiali e la Spagna aveva il culo per terra. Allo stesso modo noi vendiamo il nostro sapere piuttosto che farne partecipi coloro che hanno deciso di vivere con noi.
La filosofia buddista spiega la necessità di comprenderci gli uni dagli altri con un principio tanto semplice quanto profondo, si chiama Itai Doshin (diversi nel corpo, ma uniti nella mente), in cui si spiega che essendo ognuno (per fortuna) differente, un’entità irripetibile, tutti gli esseri umani insieme rappresentano uno straordinario puzzle di persone uniche, da qui la necessità di lavorare tutti insieme per il benessere comune e per la prosperità di tutti.
Sarà anche una soluzione semplicistica (e io non lo credo), ma la crisi non solo economica attuale, ci sta facendo tragicamente vedere come siamo tutti collegati da sottilissimi ed invisibili fili che legano i nostri destini in modo inesorabile, anche senza che ne siamo consapevoli.
Magari rendercene conto servirà anche a qualcosa.